Journal

In copertina: foto di Hélène Binet, progetto della Torre di Controllo a Marina di Ragusa.

Ecco un paio di ragioni per le quali è diventata il mio principale modello di riferimento, nonchè un po’ di personale interpretazione del suo stile architettonico:

donna e siciliana

Ok, non possono essere due meriti in senso stretto, però riuscire ad emergere internazionalmente, partendo da una terra così difficile, non è da poco. Dal 1986 ha il proprio studio nel paese natale di Vittoria, lontana da vita mondana ed epicentri artistici, ma non è nè provinciale, nè disinformata. Non usa social, non si sponsorizza su internet e non ha nemmeno una pagina wikipedia nonostante i numerosi premi vinti (una volta ho provato a farla attivare, ma illuminati moderatori non ritenevano che fosse una figura di spicco). Un atteggiamento controcorrente nel panorama architettonico contemporaneo, tanto ad aver spinto Luigi Prestinenza Puglisi ad attribuire parte del suo successo a questa sua particolare ascetica narrazione di sè (vedi articolo).

un anno all’Università degli Studi di Palermo

Ho avuto l’onore di essere sua studentessa nell’unico anno in cui è stata professoressa alla Facoltà di Architettura a Palermo. Era il 2010 e la materia – a scelta- era “Laboratorio di Arredamento e Architettura degli Interni”: si trattava di architettura e spazi interni – nell’accezione più completa.
Ogni settimana, dopo 3 ore di autostrada da Vittoria a Palermo, era lì fra noi: da mattino fino a pomeriggio inoltrato, faceva pausa con una sola porzione di crackers (frugale fino all’inverosimile) e insegnava e faceva valutazioni a circa 30 allievi architetti.

Riportando questo dato questo voglio sottolineare due aspetti: primo, ho avuto la fortuna di assistere alle sue lezioni, fra le più importanti mai ricevute; secondo, ha insegnato un solo anno. Non ha avuto vita facile nel consolidato microcosmo accademico, da cui è stata rigettata fuori senza tanti complimenti. Insomma, anti-accademica, abbastanza fuori dal coro… altri punti “a sfavore” per emergere in questa professione.

foto di Hélène Binet, Maria Giuseppina Grasso Cannizzo nel suo progetto della casa di Vacanze a Noto

l’influenza giapponese

Maria Giuseppina ha avuto la possibilità di vivere un anno in Giappone, ospite di una zia. L’ha comunicato in aula, come incipit di uno dei più grandi insegnamenti che potesse darci: la pulizia spaziale dell’architettura giapponese. Lezione che ha ovviamente fatto sua e che caratterizza la bellezza di ogni suo progetto, dove il vuoto è grande protagonista, il caos viene addomesticato e ordinato secondo precisi disegni.

Senza nulla togliere ad altri insegnamenti di ugual rilievo, nessun docente ci ha mai messo di fronte a questi riferimenti così lontani ed è stato fondamentale per me scoprire le soluzioni spaziali di Waro Kishi, Kazuyo Sejima, Toyo Ito e colleghi. Mi sembra di sentirla ancora adesso, quando suggeriva di prender a riferimento una qualsiasi micro-casa giapponese, perchè son bravissimi a cavar fuori da metrature ridotte veri e propri gioiellini, misurati al millimetro, essenziali, logici e semplicemente belli.
Per creare capolavori, diceva, non servono mica grandi appalti o grandi spazi.
Non per niente tutti i suoi progetti sono – come lei stessa riferisce – di scala piccola o media massimo.

CASA BIFAMILIARE, MARINA DI RAGUSA
progetto di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Casa bifamiliare a Marina di Ragusa, foto di Hélène Binet

il riuso architettonico

Altro insegnamento pionieristico: al tabula-rasa, l’architetto promuove tantissimo il riuso architettonico – altresì chiamato “Architettura Parassita” (dall’omonimo libro della sua più assidua seguace, Sara Marini). Un modo di appropriarsi delle preesistenze, dando dignità, bellezza e identità a manufatti già realizzati e non riusciti, modificandoli/plasmandoli, creando nuovi e inaspettati progetti.
Piuttosto che demolire il costruito, e considerare la preesistenza come un limite, questo diventa il punto di forza stesso del progetto: è quello che lo rende unico, che rinforza la sua identità, che eticamente sfrutta quanto già disponibile, riducendo l’inquinamento e trovando una strategia di intervento per la trasformazione delle nostre città.

cerco sempre di far mio questo importantissimo insegnamento. Nei miei due progetti – la Villa a Plemmirio (a fianco) e il Teatro Riciclato – utilizzo gran parte della pre-esistenza per dare forma a nuovi spazi e nuove espressioni architettoniche. Soprattutto in ambito residenziale è un concetto fondamentale, dato che il confronto con l’esistente è inevitabile.

I progetti che nascono da questo approccio sono stupefacenti: interi complessi vengono svuotati e riprogettati nel loro interno, ottenendo così un effetto di scatole cinesi; volumi nuovi si inseriscono nei vecchi creando accostamenti degni di un’installazione di arte contemporanea.
Questo metodo sottolinea un’altra sua peculiarità: la capacità di sovvertire le regole del gioco, dando un nuovo significato alle cose.

la struttura come espressione

In aula era sempre affiancata dal suo più importante collaboratore/collega: l’architetto Salvatore Ingrao – anche lui cultore della materia. Con lui ha seguito il 90% dei progetti: la Casa a Modica, la bellissima Casa per vacanze a Noto, le tre case Unifamiliari a Ragusa e Vittoria, la casa studio a Vittoria, la bifamiliare di Ragusa, il Cafhè Mangiarebere a Catania e la Torre di Controllo a Marina di Ragusa – che andrebbe studiata in tutte le facoltà di architettura.
Il suo contributo era molto presente anche a lezione, soprattutto dal punto di vista strutturale/funzionale. L’architetto Cannizzo chiedeva spessissimo parere a lui specie quando si trattava di ipotizzare estensioni, nuovi volumi, aggetti, strutture a vista eccetera.

A differenza degli approcci volumetrici di molti architetti, che privilegiano un pulito gioco di luce e l’esaltazione della massa spaziale (si pensi ad Alvaro Siza e la scuola portoghese), l’architetto apprezzava molto che l’intervento strutturale venisse esaltato e fosse partecipe dell’estetica del progetto.
Senza diventare il fulcro del progetto (per quello bisogna guardare Santiago Calatrava o Pier Luigi Nervi), la struttura ha sempre un ruolo chiave e non è mai celata, rivestita o messa in disparte. Come se si esponesse il processo progettuale alla luce del sole.
Nel riuso è facile individuare l’estensione rispetto all’esistente, il nuovo soppalco dove prima vi era un vecchio solaio, la nuova scala dove prima vi era un vuoto eccetera; nelle nuove costruzioni è facile comprendere quale sfida progettuale abbia dovuto superare: un dislivello nel terreno, la necessità di alzarsi di quota, ecc.

La struttura è partecipe, a livello espressivo e funzionale, in modo del tutto paritario alle restanti parti dell’opera. Conferma infatti di tener moltissimo a questo aspetto e che è già nella fase di concept che inizia a delineare personalmente lo sviluppo e il disegno delle strutture, lasciandosi guidare/correggere e collaborando con gli strutturisti che la seguiranno nelle fasi dopo.

casa per vacanze, Noto – foto di Hélène Binet

il rapporto con la committenza

Primissima lezione. Via con diapositive, sul muro dell’aula compaiono le foto della villa a mare del set scenografico di Montalbano. Diapositive successive: piante e foto dell’abitazione della serie tv Un Medico in Famiglia. E così via: altri 3/4 esempi discutibili per chi ha un certo tipo di cultura architettonica, come tutti i presenti in quell’aula.
Senza fare una piega, l’architetto ci ha comunicato che tante persone hanno in mente questo tipo di riferimenti, quando pensano alla loro casa ideale. Sono questi i modelli che conoscono, perchè la tv manda queste immagini in tutte le case. Non tutti siamo informati alla stessa maniera.

Diversi clienti sono quindi andati da lei con queste foto: a quel punto, ci ha spiegato che abbiamo un dovere, che è quello di far emergere la nostra professionalità, l’estetica e il gusto che abbiamo affinato nel corso degli anni a forza di studiare e imparare dai Maestri. Sfruttare la sensibilità che abbiamo maturato nei confronti dello spazio. Perchè è così, il gusto si educa, la bellezza è frutto di studio e duro allenamento.

[Tutti i professori dovrebbero poter fare la libera professione, per poter dare insegnamenti di questo tipo].

Non vuol dire che dobbiamo essere tutti uguali e che necessariamente dobbiamo amare tutti l’architettura giapponese ad esempio. Ma bisogna distinguere un’architettura non funzionale, non coerente e carica visivamente, da quella funzionale, che esalta lo spazio e restituisce bellezza. E noi architetti siamo il valore aggiunto per i nostri clienti, non un ostacolo, e abbiamo il dovere di dare loro la nostra visione.

casa di Vacanze a Noto
Maria Giuseppina Grasso Cannizzo nel suo progetto della casa di Vacanze a Noto – Foto di Hélène Binet

l’approccio artigianale, per davvero

L’architetto porta il proprio progetto personalmente dal concept sino alla fase esecutiva di dettaglio. É quanto di più lontano dallo stereotipo dell’architetto che disegna l’idea su un fazzoletto, lanciandolo ai sottoposti perchè lo ingegnerizzino, ovvero lo ri-disegnino con misure reali, risolvendo tutti i nodi critici dovuti alla sua fattibilità cercando di rispettare al massimo l’idea iniziale.
Questo processo di messa a disegno (che solitamente è ciclico, e influenza anche il concept, eccome) lo segue lei stessa, come ci insegnano metodi “vecchio stampo”, più artigianali, alla Munari.

E fatto forse ancora più scioccante (ma solo per chi lavora in questo ambito) ha imparato in tarda età l’uso di software architettonici, gestendo spesso da sola le commesse. Chiarisco per i non addetti ai lavori: è un fatto più unico che raro, i progettisti senior si appoggiano quasi sempre a nuove leve, non tirano una linea a computer – al massimo qualche schizzo cartaceo nei migliori casi (e se poi si ha un minimo di fama è quasi impensabile concepire il contrario). Aggiungete anche che agli inizi della sua carriera si lavorava solo a mano e capirete quanto sia fuori dal coro.

qualche conclusione

Sicuramente una progettista particolare, intransigente ed estremamente coerente. Ammette anche che non è un’affabulatrice che riesce a procacciarsi moltissimi incarichi:

“quello che mi capita, faccio”

Non ha terminato moltissimi incarichi – in accordo con la committenza – perché delle scelte prese non rispecchiavano più la sua visione, così come non accetterebbe di buon grado finanziamenti perchè desidera quanto più possibile libertà d’espressione.

Per chi fosse affascinato da questa progettista, suggerisco di guardare qualche video-lezione su youtube e due libri – anche se un po’ criptici per i non addetti ai lavori:

Spero di aver instillato la giusta dose di interesse per chi non la conoscesse ancora!

Se vuoi essere aggiornato sui nuovi post, iscriviti alla newsletter!

2 Commenti a “Maria Giuseppina Grasso Cannizzo

  1. L’architettura non é una scienza , larchitettuta é fatta solo da semplici emozioni .
    Maria Giuseppina ne é l’esempio .
    L’adoro !

    1. ciao Michele, che dire se non che sono d’accordo? Aggiungo anche che Maria Giuseppina guardava moltissimo anche all’aspetto tecnico, ma secondo un approccio propositivo e poetico – la tecnica vista come possibilità espressiva. Un saluto

Rispondi a Virginia Lorello Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *