Parlare dello stop ai lavori di una metro a causa del rinvenimento di un vasellame negli strati più antichi del suolo, o dell’impossibilità di costruire tal ponte-infrastruttura-megaprogetto in difesa di veduta TalDeiTali… in Italia è diventato un cliché. L’approccio eccessivamente conservativo che caratterizza gli italiani, o meglio la nostra pratica tecnica e burocratica, è così radicata da recare disagio e frustrazione, e in molti casi perdite economiche rilevanti e un freno a un possibile futuro migliore.
È un argomento di così facile bersaglio, da diventare argomento da bar e attrarre la promozione del suo esatto opposto, perfino da personale docente all’Università: il loro inneggiamento a osannare l’esempio nipponico aveva a suo tempo fatto breccia con estrema facilità in noi studenti, che abbiamo messo in crisi repentinamente il nostro atteggiamento materiale e poco distaccato nei confronti dei monumenti.
In che senso? I giapponesi non hanno una tradizione del restauro come la nostra, ma, in virtù della tradizione, della memoria collettiva, di rituali religiosi, la maggior parte dei templi più importanti viene ricostruito ogni tot anni. Questo processo di ricostruzione è chiamato Shikinen Sengū; maggiore è il prestigio del tempio, maggiore è la frequenza di ricostruzione (vedi il tempio di Ise, ricostruito ogni vent’anni dal 690 dc).
Questo atteggiamento è stato osannato e abbracciato dai docenti come chiave contro l’intossicazione burocratica, come soluzioni ai cavilli, ai no, ai veti normativi, alla musealizzazione forzata, a tutto ciò che ci “blocca”.
Nonostante norme e burocrazia possano essere talvolta limitanti senza alcun beneficio, voglio spezzare una lancia a favore della nostra visione, visto che tendiamo molto spesso a criticarci duramente, eccedendo dal lato opposto.
La cultura nipponica è stata estremamente conservativa per molti secoli, e il suo progresso tecnico non è stato incalzante come quello europeo-italiano. È stato diverso, maggiormente volto a un’interiorizzazione. Tecnicamente il progresso è stato poco perseguito, per cui vi è davvero pochissima differenza fra un edificio ante anno 1000 e fine 1800. Tale pensiero, non è applicabile a moltissimi capolavori artigianali nostrani, non solo per via della forte individualità che riconosciamo all’artista che ha eseguito un certo bassorilievo, scultura eccetera – ma perché la maggior parte della sapienza legata a lavorazioni antiche è andata persa (o è in mano di pochissimi ricercatori e restauratori).
E se questo è abbastanza ovvio, e si intende che bisognava cogliere l’essenza di tale pensiero, ovvero del non aggrapparsi nostalgicamente al materico, abbracciando semmai un sapere più ampio che non ha paura del deterioramento, del rinnovamento, grazie alla memoria storica… ecco, restaurare oltre che maggiormente sostenibile dal punto di vista pratico, in fondo è anche economico-ecologico:
I santuari del complesso vengono smantellati e ricostruiti sempre identici una volta ogni vent’anni, con spese esorbitanti. Gli edifici attuali, costruiti nel 2013, sono la sessantaduesima ricostruzione, la prossima è in programma per il 2033.
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Immaginate nel nostro caso la quantità di marmi, ori, pietre, bronzi, stucchi, intonaci…
A meno di trovare ragioni inaspettate, non riesco ancora a vedere il buono del ricostruire ex novo dov’era e com’era – allora sì, meglio piuttosto una bella foto incorniciata in una bacheca museale.